C’è poco da fare: ci sono tappe, nella vita di un genitore e in particolare in quella di una madre, che non si dimenticano. E che hanno un’intensità speciale soprattutto per il primo dei figli (se ne hai più di uno, sai che è così!): l’emozione del primo dentino, dei primi passi, delle prime parole, ma soprattutto delle tappe scolastiche, come l’ingresso alla scuola dell’Infanzia, in prima elementare (chissà come sarà entrare nel mondo della scuola), il primo giorno di scuola media (che a forza di terrorizzarci, noi genitori siam più tesi dei figli), e poi le superiori, ed è un’altra tappa tosta (ma lì ti senti già messa ai margini e decisamente ‘vecchia’, e speri abbiano fatto la scelta giusta, che studino, che non inizino a fumare o a sbevazzare, che si innamorino, sì, ma con moderazione, possibilmente di quello giusto, di quella giusta)… insomma, la vita del genitore è piena di fasi, di tappe. E di tante pippe mentali.
Chi ha più di un figlio sa che certe tappe hanno il sapore del “già vissuto” dopo il primo figlio, e che ci si sente pure un po’ in colpa per questo. Non dico che non siano significative, per carità. Ma un po’ è diverso. Per i “non primogeniti” è meglio, intendiamoci: loro non convivono con la nostra incertezza di neo genitori, e si risparmiano pure tutto il nostro carico emotivo. I secondi e i terzi la scampano. I quarti figli, poi, pare vivano leggeri come piume la nostra altrettanto ‘leggera presenza’.
Ma i primogeniti no, loro le nostre emozioni se le beccano tutte. Come ora, caro figlio mio, perché il giorno del tuo diciottesimo compleanno appena trascorso per me ha significato anche rivivere la prima volta che sono diventata madre, il primo parto, la prima poppata. Insomma, una ribollita di emozioni dove la gioia per il tuo si confonde con l’ansia per il mio: ho un figlio maggiorenne, cacchio. Com’è che direste voi? È #tantaroba.
Questo traguardo obbliga ad un momento di bilancio in ogni forma di maternità, anche se si adotta un figlio e addirittura si festeggia la doppia nascita: quando quel figlio è venuto al mondo, e quando ha ritrovato una famiglia pronta a crescerlo. E forse è una tappa ancora più commovente, perché per un genitore adottivo nulla è così scontato, errore che invece a volte facciamo noi. Insomma, i 18 anni del primo figlio, o figlia, ti fanno pensare e ti scombussolano, perché per la prima volta in famiglia cambiano gli equilibri: gli adulti non sono più solo due. E tu mamma non puoi più dire “non puoi farlo perché sei un minore, sei sotto la mia responsabilità”. Sembreresti ridicola.
Okay, lo so che non sempre basta raggiungere la maggiore età perché i figli siano davvero maturi, oggigiorno. Ma in teoria, se si lavora bene, lo sono. O, perlomeno, sono pronti ad entrare a pieno titolo nella società, nel mondo degli adulti, in una vita sempre più autonoma dove rispondono, nel bene e nel male, delle loro azioni.
Loro sono pronti. Spesso, invece, non lo siamo noi.
Perché questa tappa, diciamolo onestamente, oggi sconvolge più noi genitori che loro. Perché quel benedetto (o maledetto) numero, quel 18 che ci guarda a tutto tondo, ci costringe ad arretrare ancora di più. Se in adolescenza avevamo dovuto imparare a fare dei passi indietro, a stare sulla metaforica soglia della loro stanza di vita, ora dobbiamo proprio uscirne. Rimanendo piacevolmente “in una stanza accanto”, possiamo godere dei dialoghi e dei confronti con loro, possiamo elargire consigli (qualora ci vengano richiesti), dire la nostra opinione, possibilmente evitando di porla come verità caduta dall’alto. Ma certamente dobbiamo smetterla di dirigere, indicare, provvedere, e predisporre la strada.
Se vogliamo mantenere un bel rapporto con i figli che diventano maggiorenni, lo conquisteremo nella nostra capacità di stare distanti. Senza sparire, rimanendo emotivamente presenti, ma rispettosi degli spazi. E delle scelte. Le loro.
Quando i figli crescono, noi genitori siamo messi a confronto con un sentimento unico, intraducibile nella nostra lingua, che è la morabeza. In creolo questa parola è usata dai capoverdiani per indicare il sentimento che una persona prova al ricordo del proprio mondo; è un indefinito, struggente, passionale, indelebile senso di nostalgica appartenenza alle proprie radici.
Mi piace pensare che anche noi, quando i figli crescono, possiamo cullarci dentro la morabeza, curando con tenerezza il genitore che siamo e che siamo stati, ricordando con affetto quel mondo, quel territorio che è stata l’infanzia dei nostri figli, non per intrappolarceli dentro impedendo loro di crescere, ma proprio per lasciarli andare. Lontano. Come è giusto che sia.
A loro è destinata la meravigliosa vita che li aspetta. A noi rimane il bello della morabeza, la dolce e struggente nostalgia della nostra storia di genitori, la certezza di aver dato tutto, la speranza di aver dato abbastanza, la voglia di esserci e rimanere più anni possibili a godere del capolavoro che sarà la loro vita.