Tre settimane fa, esattamente a quest’ora, ero letteralmente in alto mare. Ho aspettato tanto prima di tirar giù questo racconto, sia perché ero in dubbio se condividerlo, sia perché avevo bisogno di far sedimentare le emozioni. Alla fine ho scelto di raccontare questa avventura, un po’ perché è stata una bellissima esperienza di condivisione familiare con figlio e padre, un po’ perché è stata una bella botta di autostima personale, e quindi con questo articolo, oltre a strappare – credo – qualche sorriso, ci tengo a dire a tutte le donne di mezza età (perché questo ormai sono, con i miei quasi 49 anni) di non smettere mai di coltivare un po’ di avventura nella vostra vita, di cercarvi delle aree di gratificazione personale, che non siano solo di accudimento familiare o, ahimè, domestico.
Siamo donne, prima di essere madri. Lo dico spesso. E soprattutto cominciamo a pensarci più forti e capaci di quel che la narrazione sociale ci dipinge.
Andiamo con ordine: siamo a inizio luglio e c’è questa traversata da fare, su una barca a vela che il figliolo ingegner-skipper deve portare su da Palermo fino alla Liguria. Una prospettiva di più di 500 miglia. La truppa prevede lui, un suo caro amico, e mio padre che non se ne perde una (77 anni biologici, 50 percepiti!!); purtroppo l’altro figliolo è impegnato tra maturità e allenamenti rugbistici e non può unirsi in supporto, e quindi chi è secondo voi la matta che decide di essere la quarta di quell’equipaggio? Dico all’ingegner-skipper: << anche se non ho le braccia forti come tuo fratello, almeno posso essere utile per cucinare e altre questioni gestionali, che in barca a vela c’è sempre da fare>>. Lui approva, pollice verso e sopracciglio alzato, tipo Giulio Cesare (solo chi convive con degli ingegneri sa che acquisiscono uno stile comunicativo stile imperatori). Dopo aver organizzato materiali e cambusa, camminando sotto il sole di Palermo (ma prima l’immancabile panino con la meuza ha ristorato i due baldi giovani), siamo salpati.
No, non quel giorno stesso, attenzione! O il panino con la meuza avrebbe fatto una brutta fine. Non che il giorno dopo il mare ci abbia risparmiato, anzi, abbiamo da subito trovato onde grandi per stomaci forti, ed ecco che lì il mio entusiasmo adolescente, che mi aveva fatto dire “Massì, mi unisco all’impresa” comincia a scontrarsi con la realtà: ‘traversata’ è diverso da ‘vacanza in barca a vela’ . Decisamente. Si macineranno miglia, mi sa che a questo giro leggerò ben poco.
L’approdo ad Ustica, luogo che purtroppo porta con sè un’aurea di brutti presagi, è stata una delle cose più desiderate della mia vita, viste le molte ore di navigazione con onde che, per la sottoscritta, erano a dir poco ‘oceaniche’. Quest’isoletta così sparuta si dimostra un luogo davvero selvaggio, dove i bambini guardano quelle poche barche che arrivano con una curiosità tipo gli indigeni d’America quando sono arrivate le Caravelle. Ammetto che, in questa traversata, ho spesso pensato a quanto fosse stato pazzo Cristoforo Colombo, per avventurarsi così in mezzo al mare, munito solo di bussola e stelle. Altro che noi oggi!
Il maestrale ci obbliga ad una tappa forzata di un intero giorno (anche se l’ingegner-skipper, ritenendosi evidentemente anche al di sopra delle previsioni meteo, aveva azzardato un tentativo di partenza, subito castigato da onde così grosse e blu che, vi garantisco, stavo già per aprire Skyscanner e cercare un volo diretto per tornare sulla terraferma!).
Il giorno dopo la natura ci grazia e ci regala due giorni di mare che è quasi un olio, ed è lì che sperimento una delle sensazioni più incredibili della mia vita: più ci allontaniamo da Ustica, ormai un puntino quasi invisibile alle nostre spalle, più prendo consapevolezza che per molte ore il mio orizzonte sarà solo fatto di azzurro-cielo sopra e azzurro-mare sotto. Niente altro. Solo cielo e mare, cielo e mare, a 360 gradi, e la nostra barchettina che pian piano punta all’isola di Ponza.
28 ore consecutive di navigazione, facendo i turni giorno e notte al timone, cellulari che ovviamente non prendono, solo noi disconnessi dal mondo che attraversiamo il cuore del Mediterraneo! Wow, davvero lì ho capito quanto è immensa la terra, quanto noi umani siamo dei puntini in un universo gigante (non vi dico la stellata notturna), e quanto poco siamo grati alla natura per ciò che ci offre, che forse troppo spesso diamo per scontato! Ma se esiste tutta questa bellezza, perché ci arrabbiamo così tanto, spesso per delle piccole cose insignificanti?
Per non dire poi l’intermezzo della pescata di un tonno bello grande, che ha impegnato i due baldi giovani per più di un’ora, in un momento-Moby Dick davvero epico! Credo che non dimenticherò mai quell’alba struggente, in cui ho dato il cambio al timone a nostro figlio e, complice una memorabile Amy Winehouse di sottofondo unita al leggero spumeggiare delle onde, mi sono commossa per tanta bellezza che stavo vivendo, lì sola nell’immensità. Quanti pensieri, quante emozioni! Credo veramente che dovremmo tutti, soprattutto noi genitori (che siamo la ‘categoria professionale’ più avvezza alla rabbia continua) fermarci ogni tanto e ridimensionare tutti gli spigoli della nostra esistenza. Se la terra è una sfera tonda (ve l’ho detto che si coglieva la rotondità della terra, in tutto quel cielo e mare?), ma perché noi genitori siamo spesso così quadrati?
Ovviamente il mare è fedigrafo e dopo l’approdo a Ponza, dove stavo per ribattezzarmi Ulissa, la ripartenza per i lidi di Ostia il giorno dopo ci ha di nuovo messi alla prova. La cosa incredibile è che, nonostante ci fossero di nuovo onde battenti, pioggia e fulmini e un vento di poppa fastidioso, l’ingegner-skipper timonava … divertendosi!!
Lì mi sono detta che, forse, abbiamo esagerato con sta questione della resilienza, quando era piccolino. Soprattutto la cosa ‘divertente’ era sentire la velocità con cui lui spiegava manovre da fare (abbiamo ormai capito che lui comunica come un audio di WhatsApp in 2x) e la lentezza con cui io le comprendevo. Che ogni volta che mi sentivo dire ‘sistema le scotte’, ‘cazza la randa’, ‘diamo una mano di terzaroli’ pensavo: ma quelli che hanno inventato la barca a vela, ma esattamente che problemi avevano per essersi inventati tutto questo gergo complicato? Che già ho un figlio che quando parla di concetti matematici e fisici non lo capisco, ora se ci sommiamo il linguaggio velico è una combo mortale eh!!
Comunque ad Ostia la mia impresa si è fermata e mi ha dato il cambio l’Husband, che – mannaggia a Nettuno – ha completato la risalita con mare decisamente più umano.
Cosa mi sono portata a casa di questa esperienza? Sicuramene una dose corposa di autostima, che non fa mai male, un senso di autoefficacia aumentato, e la profonda convinzione, come dicevo in apertura di questo mio lungo sproloquio velistico, che noi donne dovremmo fare molto più spesso delle esperienze avventurose e sfidanti nella vita. Dovremmo smetterla di precludercele a priori, come se l’audacia fosse appannaggio solo dei maschi, come la cultura contemporanea ancora diffonde.
Dovremmo riuscire, nella vita o in mezzo al mare, a credere di più in noi stesse e nel nostro potenziale.
Perché siamo un puntino in mezzo al mare, ma possiamo essere un puntino che fa la differenza.